L’esperto risponde

    • La perdita di una persona a noi cara può scatenare, in taluni casi, il senso di colpa. È un pensiero irrazionale, che ci porta a pensare che avremmo potuto fare di più o addirittura salvare il nostro caro. Talvolta si sviluppa poi la cosiddetta “colpa del sopravvissuto”, che scaturisce quando in condizioni analoghe un individuo sopravvive, mentre altre persone intorno a lui non ce la fanno. 

      In tutti questi casi è evidente che non esiste nessuna reale volontaria responsabilità rispetto agli eventi occorsi; nonostante questo, alcune persone possono trovarsi nella condizione di costante ripensamento e ruminazione rispetto a ciò che avrebbero potuto fare e che non hanno fatto. 

      Dobbiamo ripeterci che abbiamo fatto il meglio e che anche se abbiamo commesso un errore di valutazione o di giudizio, ci siamo comportati nel modo che credevamo migliore, con le informazioni e le condizioni che avevamo a disposizione in quello specifico momento e non con il cosiddetto “senno del poi”. Piuttosto che cercare un colpevole, permettiamoci di focalizzarci sui sentimenti di dolore per la perdita e di gratitudine per ciò che di positivo è rimasto, quali le esperienze vissute insieme al nostro amato e il loro ricordo. Se le difficoltà sono tuttavia persistenti, e se i pensieri di colpa diventano intrusivi e compromettenti la nostra funzionalità globale, può essere utile indirizzarsi ad uno specialista psicoterapeuta.

    • Questa domanda ha una difficile risposta. La perdita di un figlio o di un fratello in giovane età è considerata la forma di dolore più grande, il lutto più difficile da elaborare. È qualcosa che rompe e stravolge il naturale ciclo di vita della natura. È la perdita del nostro investimento più grande, la frattura di tutte le proiezioni positive che possiamo avere nei confronti del futuro.

      Nella mia esperienza lavorativa, ho visto genitori trarre beneficio da esperienze di condivisione con altri genitori che hanno vissuto percorsi analoghi (ad esempio in gruppi di auto-mutuo aiuto), e soprattutto da esperienze di trasformazione della perdita, in un atto positivo a beneficio di qualcun altro. Ci sono genitori che danno vita a raccolte fondi, o che investono il loro tempo nel volontariato. Questi processi sono rigenerativi e curativi. Laddove il nostro amato non ce l’ha fatta, per talune persone contribuire a far star bene o a salvare qualcun altro, può essere veramente una forma di sollievo e di restituzione di senso e significato rispetto a questo immenso dolore.

    • La morte improvvisa, rispetto alla morte dopo lunga malattia, è un evento traumatico di difficile elaborazione. Il fatto che sia un evento inatteso pone infatti l’individuo di fronte a qualcosa che non ha avuto il tempo di immaginare e “mentalizzare”, la persona si trova quindi impreparata e senza strumenti per reagire. La morte improvvisa non permette inoltre di salutare il nostro caro, di dirgli ciò che avremmo voluto dirgli o confessargli, e lascia per definizione tanti “sospesi”. 

      Come in ogni situazione difficile, il suggerimento è quello di cercare di focalizzarsi sugli aspetti positivi: la morte improvvisa è generalmente poco o non dolorosa per chi se ne va. Proviamo a pensare a questo, che il nostro caro non ha vissuto la sofferenza connessa alla lunga malattia e alla consapevolezza della fine, e cerchiamo con lui/lei un dialogo in forme diverse. Possiamo salutarlo con dei rituali individuali o condivisi con altre persone. Molto utile può risultare la scrittura di una lettera di saluto, nella quale esprimere tutto ciò che avremmo voluto dire e/o fare, senza averne avuto il tempo.

    • Il lutto di una persona amata è destabilizzante. Ci sentiamo persi, senza punti di riferimento. Possiamo arrivare anche a percepire la precarietà della nostra stessa vita, proiettando su di noi la possibilità che quello stesso evento possa accadere anche a noi stessi. 

      La precarietà è una delle tante sensazioni che possono accompagnare la perdita di una persona amata. Come per tutte le altre emozioni (dolore, tristezza, rabbia, eccetera…), anche per il senso di precarietà esiste un tempo “fisiologico”, cioè sano, normale, nel quale sentire queste emozioni. Con il passare del tempo l’organismo tende tuttavia a riorganizzarsi e a trovare un nuovo assetto emotivo: le sensazioni si presentano con minore intensità e pervasività, ed il soggetto recupera un parziale benessere. Esistono tuttavia alcune situazioni nella quali vi è una mancata risoluzione spontanea delle manifestazioni psicologiche associati al lutto. In questi casi, definiti dal DSM-V (il manuale di riferimento della psichiatria), come affetti da “disturbo da lutto persistente complicato”, è necessario parlarne con il medico curante e chiedere l’aiuto di uno specialista.

    • Gli esercizi da proporre a un anziano allettato sono molteplici e si possono dividere in esercizi da supino ed esercizi da seduto, a seconda del grado di immobilità del paziente.

      Se l’immobilità è severa, l’obiettivo è prevenire la perdita di forza muscolare e mantenere il tono, in modo da rendere possibili i movimenti base che si effettuano a letto per ricevere assistenza (igiene, cura).

      Consiglio 3 esercizi:

      • Nel primo, partendo dalle gambe, assistiamo il paziente nel movimento di flessione ed estensione del ginocchio, con il tallone che scorre sul lettino. 
      • Nel secondo esercizio prevediamo il movimento del bacino, che è il nostro centro di gravità. Con l’esercizio del ponte riusciamo a mantenere la mobilità del bacino stesso all’interno del letto. Il ponte viene effettuato piegando le ginocchia del paziente con i piedi in appoggio sul lettino e chiedendo di sollevare il bacino verso l’alto; è sufficiente che il paziente riesca a togliere peso dal bacino, in modo da poterlo muovere con poco dispendio di energie.

      Nel terzo esercizio, che riguarda le spalle e consente al paziente di mantenere la possibilità di sollevare il tratto alto della schiena dal letto, è possibile compiere il primo movimento necessario per il passaggio supino/seduto. Partendo dalla posizione del ponte (ginocchia piegate, piedi in appoggio) chiediamo al paziente di scivolare con le spalle prima a destra, poi a sinistra, attivando i muscoli del fianco. Per attivare la catena muscolare anteriore in questo esercizio, possiamo chiedergli “guarda i tuoi piedi” e ricercare il movimento di flessione del capo.

    • La collaborazione del paziente è uno dei fattori più importanti in riabilitazione. 

      Nei casi più gravi di decadimento cognitivo, l’impossibilità di comunicare rende difficile il percorso riabilitativo e molto complicato il compito del caregiver.

      I consigli a seguire sono per situazioni in cui la finestra comunicativa si può ancora considerare aperta o parzialmente aperta.

      Un primo consiglio è quello di parlare lentamente e chiaramente, cercando il contatto visivo e quando possibile mimando i movimenti che si vogliono proporre. 

      Un secondo consiglio è non avere fretta: a volte, infatti, il paziente può impiegare alcuni secondi per cogliere la richiesta e mettere in atto le azioni per soddisfarla. 

      In caso di paziente allettato, la posizione orizzontale mantenuta per diverso tempo può causare un disorientamento spaziale che porta ad avere paura nel movimento anche da sdraiati; per questo, quando possibile, è utile posizionare il paziente in una seduta passiva sicura, ovvero con appoggio posteriore e anteriore e piedi ben a contatto con il suolo.

    • Se una persona sola non è in grado di compiere le manovre di movimentazione del paziente, può intervenire un secondo caregiver. In entrambi i passaggi posturali, una persona compie gli stessi movimenti che si possono vedere nel video dedicato https://noicisiamo.santex.it/come-muovere-lanziano-allettato-esercizi-e-riabilitazione/ e guidare la manovra, mentre l’altra ha il compito di sorreggere il peso con una presa al bacino diretta ed efficace, posizionandosi dietro la carrozzina.

      Quando si sposta una persona pesante è importantissimo utilizzare le gambe in semi flessione e tenere la schiena quanto più dritta possibile per non avere contraccolpi.

      Nei casi più complicati, suggerisco un consulto con il medico per valutare se c’è la necessità di utilizzare un sollevatore meccanico.

    • Se i disturbi cognitivi compromettono la comunicazione, è comunque possibile fare riabilitazione di tipo passivo per prevenire gli accorciamenti muscolari e i danni da immobilità. Un caregiver può muovere i quattro arti del paziente, lentamente e senza arrivare a posture estreme, chiedendogli sempre collaborazione, rivolgendogli frasi come ad esempio: “Aiutami a muovere la gamba”. 

      In alcuni casi, ad esempio in presenza di Parkinson, è utile sapere che esistono dei momenti della giornata (ON) in cui il paziente, grazie ai farmaci, riesce ad avere un buon livello di attività fisica e mentale. Se c’è indicazione medica, è preferibile sfruttare proprio questi momenti: la capacità di movimento risulta più pratica e più sicura.

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