La storia di Giorgio

La storia di Giorgio

La nostra intervista a Giorgio Soffiantini, caregiver della moglie malata di Alzheimer e consigliere dell’associazione AFMA, che organizza corsi sulla gestione delle persone affette da questa terribile malattia neurodegenerativa.

Dottor Soffiantini, lei ha scritto due libri sulla sua esperienza di caregiver di un malato di Alzheimer, sua moglie. Ce ne può parlare brevemente?

Nel primo libro racconto quello che accade in una famiglia quando arriva questa tremenda malattia. Ho potuto scriverlo quando ho smesso di lavorare a causa della malattia di mia moglie. Essendo i figli grandi e lontani, mi sono trovato da solo a gestire la situazione e ho sentito la necessità di confidarmi con un diario e di scrivere ciò che stava accadendo nella mia vita. Ho compilato nel tempo due quaderni che poi, una volta entrato in casa di riposo per assistere mia moglie, ho cominciato a trascrivere. In questo libro racconto lo sconcerto iniziale: un familiare che non ne sa nulla di questa patologia - perché pur avendo lavorato nella sanità per 37 anni non ne sapevo nulla - si trova catapultato in una realtà senza ritorno. È questo che accade in tutte le famiglie che, non sapendo nulla, commettono tanti errori nella gestione della malattia. D’istinto, quando il malato comincia a comportarsi in maniera anomala, si tende a correggerlo e questo è profondamente sbagliato. Nel secondo libro, che ho presentato a fine aprile, racconto l’esperienza di assistenza che per undici anni ho fatto con mia moglie all’interno di una casa di riposo. Il libro racchiude anche le esperienze collaterali nelle quali sono impegnato come lo scrivere libri e il volontariato, quelle attività che mi hanno impedito di cadere nella depressione e nello sconforto.

Può spiegare cos’è l’Alzheimer a chi non ne sapesse niente?

Di questa patologia, diagnosticata più di cento anni fa, non c’è ancora una terapia efficace, risolutiva, anche se oggi se ne sa molto di più dal punto di vista di una gestione corretta. Io feci un paio di corsi specifici per familiari che mi hanno aperto al mondo che mi aspettava, nel quale mi sono tuffato senza nessuna remora. Sono stato accanto a mia moglie dai primi sintomi a quando è mancata, per diciotto anni. Con lei mi sono fatto undici anni di casa di riposo, poiché non era più possibile gestirla a casa: nella fase più critica, quando il cervello non controlla più i circuiti alternativi, il malato diventa completamente irrazionale, la casa diventa piena di pericoli, di finestre, di scale, di porte, di coltelli, corrente elettrica, gas. Una persona in crisi comportamentale non vuole più sapere di dormire, di mangiare, di assumere i farmaci, di bere, di fare i propri bisogni fisiologici, di stare in pace un secondo. Ecco cos’è l’Alzheimer.

Che tipo di esperienza è stata la sua?

È stata un’esperienza drammatica fino a quando sono riuscito ad istituzionalizzare mia moglie in un reparto specializzato, dove il personale preparato in maniera specifica assiste i malati. A casa i familiari molte volte impazziscono diventando le prime vittime della malattia. Il rischio è proprio quello di ammalarsi, andare in depressione, a volte arrivando anche a decisioni estreme, come a volte si legge sui giornali: “Lui uccide la moglie e poi si uccide”. È capitato già tre volte a Verona, l’ultima prima di Natale. Sono soprattutto gli uomini a compiere questi gesti estremi, perché un uomo che non ha mai custodito la casa si trova da solo a gestire le problematiche annesse e connesse e dovendo assistere una persona in quelle condizioni, decide di farla finita. Questo della gestione a domicilio è stato il momento più difficile. Una volta inserita mia moglie in una struttura specializzata ho trovato la soluzione ottimale, quando la sera me ne andavo potevo stare tranquillo, sapevo che era in buone mani. Questa tranquillità mi ha permesso di dedicarmi ad altre cose, come scrivere libri, un’esperienza che non avevo mai fatto prima. Ho sempre cercato sponsor per pubblicarli. E il guadagno l’ho devoluto in beneficenza. 

Com’era la sua giornata tipo in quel periodo?

Entravo in casa di riposo alle 8 della mattina perché dovevo somministrare la colazione a mia moglie. La trovavo già pulita, sistemata. Fino a quando lei era in grado di camminare, la prendevo e uscivamo dal reparto e passeggiavamo nel giardino della struttura oppure fuori, in paese. Verso le 11:30 c’era il pranzo. Per un ammalato in quelle condizioni il cibo è l’interesse primario: quando iniziava a mangiare mi potevo allontanare senza nessun problema. Dopo pranzo il personale metteva a riposare gli ammalati, io ritornavo nel pomeriggio verso le 5 o 5 e mezza e rimanevo con lei fino alle 7 e mezzo. E così il giorno successivo.

Lei e sua moglie riuscivate ad avere un dialogo?

Sì, riuscivo ad avere una forma di dialogo con lei, ma non pensate ad un dialogo normale. Il suo primo sintomo è stato proprio legato al linguaggio, non riusciva a ricordare il nome delle cose, diceva: “Dove è quel coso, dammi quel coso” Dalla difficoltà nel linguaggio è passata a non sapere più dire una parola sino a emettere dei suoni senza nessun significato. Quando arrivavo la mattina in casa di riposo le facevo un po’ di carezze e lei approvava, sorridendo. Poi, quando passeggiavamo eravamo sempre per mano e anche se lei non parlava io non smettevo di farlo e le raccontavo le cose della nostra vita, le cose che avevamo fatto insieme: a mia moglie piaceva sciare, viaggiare. Catturavo la sua attenzione, lei mi ascoltava e approvava con un sorriso o con un movimento affermativo della testa.

Con che spirito ha affrontato questa situazione?

Sono stato sempre uno iperattivo, abituato anche lavorativamente ad essere impegnato su più fronti. Chiaramente l’impegno con mia moglie era assoluto, ma per non abbattermi cercavo sempre di tenermi occupato in altre cose, di non avere un minuto libero. Mi sono dedicato al volontariato, andavo in giro con l’ambulanza. Poi, ho iniziato a scrivere libri, a fare presentazioni, testimonianze, mi sono occupato anche di restauri. Fortunatamente, mi bastano poche ore per riposare. Quando ero a casa da solo mi buttavo nella scrittura. Tutto ciò è stato la mia terapia, quello che mi ha salvato e mi ha impedito di cadere nella depressione o nello sconforto. La determinazione l’ho sempre avuta e quindi sono andato avanti fino alla fine e sto continuando ad andare avanti, perché quel che succede quando viene a mancare l’ammalato è non volerne più sapere: l’esperienza è troppo traumatica e si tende a dire basta. A me è successo il contrario: quando è mancata mia moglie ho voluto duplicare l’impegno con le famiglie dei malati. 

Lei coordina un gruppo di esperti per varare una proposta di legge. Di cosa si tratta?

Primo punto: un malato di Alzheimer non può accedere al pronto soccorso insieme a tutti gli altri. Non si rende conto di dove si trova, non ha la pazienza, si trova a disagio, e i medici non se ne rendono conto; questi malati devono avere un accesso differenziato. In più, per evitare ulteriori disagi, il familiare o il caregiver deve essere sempre presente in queste situazioni, facendo valere la propria funzione di amministratore di sostegno, anche se il medico chiede di uscire dall’ambulatorio. Secondo punto: le aziende sanitarie devono organizzare i corsi di formazione, rendendoli obbligatori ai familiari. Se un familiare è informato gestisce meglio la patologia e l’ammalato soffre meno. Se le aziende sanitarie non sono in grado di organizzare questi corsi, possono fare delle convenzioni con le associazioni presenti sul territorio. Terzo punto: la crisi comportamentale. Gli ospedali non sono attrezzati per ricoverare malati in questo stato. Ma in casa siamo attrezzati? Direi proprio di no. Questo è il momento più complicato per le famiglie. Ci sono alcune realtà virtuose a Belluno e a Treviso dove l’azienda sanitaria locale ha organizzato una equipe di specialisti che in caso di crisi comportamentale si reca a casa del malato. È una cosa meravigliosa, ma sarebbe ancor meglio che venisse fatta in una situazione protetta, non in casa.

Che messaggio si sente di lanciare ai caregiver dei malati di Alzheimer?

Il consiglio che io do innanzitutto è quello dell’informazione. Bisogna fare un corso, altrimenti si commettono molti errori e l’ammalato sta male. Vi faccio un esempio, dopo aver seguito un corso un familiare di un malato mi ha detto: “Ci siamo resi conto che eravamo noi a sbagliare. Mia madre non parlava più da un anno e non partecipava più a nessuna attività. Seguendo i vostri suggerimenti è tornata a sorridere”. Altro consiglio che mi sento di dare: quando la patologia diventa grave non si può gestire un malato a casa. Ove possibile va messo in un istituto specializzato, perché lì sta meglio. Ma chi non può permettersi economicamente di inserirlo in un istituto cosa può fare? È qui il grande problema da risolvere a cui le istituzioni, gli enti, le associazioni devono far fronte.

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